La storia sta così e la trovate ampiamente sviscerata un pò ovunque: quattro amici (più uno che poi finirà altrove) decidono di mettere a frutto la propria creatività in un periodo della vita - la giovinezza - florido di promesse e scevro di fallimenti annunciati, formano una band che si chiama Torches grazie alla quale si divertono, suonano in giro, bevono, rimorchiamo e si inebriano di futuro e ribellione. Com'è poi nella natura dell'età spensierata il tempo viaggia a velocità siderale così come gli affanni, i sogni, le fascinazioni e la quotidianità, dominati dall'inquietudine ormonale. La band si scioglie all'improvviso senza particolari sussulti, e ognuno di loro intraprende il percorso di esperienze che lo porterà inevitabilmente a perdersi di vista con il nucleo originario.
Ma si sa, la musica - come l'amore - segue dinamiche a noi misteriose, avvalendosi di energie che spesso interagiscono col fine di ricreare l'armonia primigenia, ovvero - in soldoni - ricondurre gli stessi quattro amici al punto di partenza della storia, ma con il plus non indifferente della conquistata maturità.
Da qui a ritrovarsi in studio è un attimo, di quelli magici e - con ogni probabilità - irripetibili.
Le rispettive ruggini si dissolvono nella memoria di automatismi rodati, l'entusiasmo è anfetamina a prezzo di costo, le canzoni convincono e l'attitudine suggella il tutto.
Alla fine l'idea di dare nuova linfa al vecchio gruppo, e immaginarselo sul palco, non pare più così bizzarra.
C'è giusto il tempo di cambiare il nome in TV Priest e volare a Seattle per firmare il prestigioso - quanto epocale - contratto con la Sub Pop, prima di andare a divorarsi il mondo.
In agenda spicca il primo concerto di rodaggio in patria (per una platea di fan e amici ancora risicata nei numeri) ma che fatalmente siglerà la loro unica - e ultima - esibizione fino a data da destinarsi.
Una legnata, il Covid, che cristallizza tutto e tutti ma non il quartetto londinese, capace di sublimare l'immane sfiga nell'opportunità della vita: utilizzare il tempo immobile per chiudere la pratica "Uppers" e dedicarsi in toto alla sua promozione virtuale, comodamente dal soggiorno di casa o quasi.
Minima spesa, massima resa.
Il sogno si concretizza finalmente all'inizio di questo Febbraio quando la label licenzia l'album su scala planetaria, così che a due mesi di distanza dall'uscita possiamo valutarne meglio il punto di caduta, al di là del buzz giornalistico e copie promo.
"Uppers" non rappresenta solo il frutto della dedizione assoluta di Charlie Drinkwater & Co ai tempi della Pandemia, ma anche l'ultima produzione - in termini temporali - della "nuova" onda Post Punk che da qualche anno, ormai, sbraccia sul mercato discografico da entrambe le sponde dell'Atlantico: Idles, Shame, Fontaines D.C. (l'artwork del loro ultimo album è appunto opera di Charlie che nella vita fa l'art director) per il Regno Unito, Protomartyr e Bambara dalla parte statunitense.
Le suggestioni dei quali vengono facili da rintracciare nelle dodici canzoni in scaletta, dove "nuovo" e "meno nuovo" (Fall, Editors, Gang Of Four, Bloc Party, Joy Division) convivono amabilmente, creando un ecosistema sonoro al tempo stesso sostenibile e dissonante, come il genere suggerisce.
Il che se dal punto di vista stilistico dimostra coerenza e pragmatismo, da quello del mero ascolto musicale non aggiunge nulla - o quasi - a ciò che già conosciamo e apprezziamo del filone in chiaroscuro.
La voce carismatica di Charlie, posseduta a sprazzi dallo spirito declamatorio di Mark E. Smith, è l'architrave attorno a cui ruota tutto il resto: la sessione ritmica serrata e marziale - con punteggiatura motorik - di Nic Bueth (basso e synth) ed Ed Kelland (batteria), i fraseggi al vetriolo di Alex Sprogis (chitarra) e, soprattutto, le liriche tese e affilate che il frontman plasma per annichilire l'establishment e scandagliare il vissuto personale.
"Saintless", posta in chiusura di sessione, configura con nettezza la summa espressiva dei TV Priest, sintetizzandone allo stato dell'arte la personalità multisfaccettata.
La lunga e sofferta cavalcata intimista, giostrata su un crescendo sonico di rara intensità, vale infatti da sola l'acquisto dell'intero album, oltre a essere la mia traccia preferita, imponendosi di misura su una manciata di altre quasi altrettanto magiche.
Nonostante l'hype revivalistico, e il "già sentito" ampiamente metabolizzato da noi fruitori scafati, "Uppers" si merita come minimo il "piazzamento" sul podio tra le ultime produzioni della (cosiddetta) bolla post post-punk, grazie al buon equilibrio delle sue proporzioni: è solido, profondo, organico, ordinato, convincente, sincero.
Ora attendiamoli dal vivo.
Buon ascolto!
Ascolta: "The Big Curve", "Journal Of A Plague Year", "Slideshow", "This Island", "Saintless".
Davide Monteverdi.