Il nuovo album di Emmanuelle Sigal "Table Rase" è, sintetizzando al massimo, bellissimo!
Senza se e senza ma.
E' proprio un'endovena di sottile goduria che ti invade quando lanci per aria aria le 9 tracce prodotte dalle mani esperte e delicate di Francesco Giampaoli.
Un lavoro davvero completo, dinamico, pieno di belle vibrazioni, suonato ottimamente (e come poteva essere diversamente) da gente del giro Sacri Cuori, modellato con tatto grazie al sagace uso delle tecniche di studio e a corollario di tutto, e di un ascolto piacevole e ripetuto in automatico, c'è pure Tom Waits, coverizzato in "Telephone Call From Istanbul".
L'artista franco israeliana, ora bolognese d'adozione, riesce nella non facile missione di creare un percorso ben equilibrato nella mezz'ora abbondante della sua durata, raccontando leggiadri quadretti esistenziali distillati tra cocktail pop e arpeggi da crooner, battute in levare schizzate di ritmi country folk, ed episodi di jazz swingato declinati in italiano, francese e inglese con una padronanza che spaventa (positivamente) per maturità.
Certo non stonerebbe veder esibire Emmanuelle in qualche club buio e fumoso degli anni 50/60, con piume di struzzo e una corona di zirconi a disegnare la fluente chioma corvina.
Ce la meriteremmo di sicuro, tra ovazioni e richieste di bis, mentre qualche entusiasta accenna passi di danza a due.
A timbrare la caratura immaginifica, e mai conformista, di "Table Rase" un mostro sacro della Dissonanza come Marc Ribot, ospite con la sua chitarra in ben 6 pezzi.
Allora, in casi come questo, è quasi meglio vivere la musica piuttosto che discettarne, perchè si corre il rischio di non centrarne l'essenza con contorni precisi: la percezione istantanea infatti è tutto davanti ad un bagaglio emozionale del genere.
Non sceglierò neppure la classica manciata di canzoni preferite, come ortodossia consiglierebbe, proprio per questo motivo: "Table Rase" è bello per l'impatto globale ed organico come gli episodi della vita che ci attendono.
Davide Monteverdi