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lunedì 8 febbraio 2021

Kiwi Jr.: "Cooler Returns" (Sub Pop, Cd 2021).


Ho già detto che la Sub Pop non sbaglia un colpo da tempo immemore?
E con l'acquisizione nel proprio roster dei Kiwi Jr. la label di Seattle conferma la linea virtuosa del suo scouting, sempre più indirizzato a percorrere coordinate musicali ad ampio spettro.
Con "Cooler Returns" - secondo album ma a tutti gli effetti vero e proprio esordio "da grandi" - il quartetto canadese sbanca a ogni livello, mettendo a fuoco il paradigma espressivo già utilizzato nel precedente "Football Money": liriche grottesche dai sottintesi ironici e ficcanti, atmosfere disimpegnate e festaiole, jangle chitarroso a suggellare canzoncine dal respiro "pop". Il tutto sublimato dall'attitudine di chi sul palco - a breve, si spera, torneranno i concerti - spruzzerà sangue e sudore pur di far innamorare perdutamente il pubblico, abbeverandosi con avidità alla fonte del miglior college rock di sempre.
I Kiwi Jr. se la giocano (quasi) alla pari con i Rolling Blackouts Coastal Fever, seppur meno lineari a livello compositivo, ma l'immaginario è proprio quello lì. Sempre alla ricerca sfrenata della melodia perfetta, del ritornello che ti fa piangere dall'emozione e, soprattutto, della credibilità che li consacri eredi naturali della tradizione "indipendente" americana.
Freschezza e coolness non difettano di certo al quartetto dell'Ontario.
Le tredici canzoni di "Cooler Returns" incorniciano alla perfezione le tappe di un percorso costellato di meraviglia e dejà vu, dove i conflitti sono stemperati a colpi di birre e risate e le svisate malinconiche vengono richiamate all'ordine prima di far danni, ribadendo ancora una volta - ma è necessario? - quanto possa essere totalizzante (e soddisfacente) la dedizione nei confronti di talune sonorità.
In poco più di 36 minuti la band di Toronto, guidata dalla voce di Jeremy Gaudet, dà fondo a tutta la creatività disponibile. Mixando elettrico e acustico, power pop e sensibilità, iniettando qua e là parti di armonica e piano, percussioni e organo, con Pavement e Modern Lovers infilzati nel cuore. 
Un cuore grande e generoso, con spazio a sufficienza per accogliere anche altri invitati al party, ingresso libero consumazione obbligatoria: Kinks, Monochrome Set, Barracudas, Wipers, R.E.M, Strokes, Feelies, Replacements, Weezer, Parquet Courts, Replacements i primi che rispondono all'appello.
"Cooler Returns" è il compendio ideale per tuffarsi a piedi pari nella marea sonica che monta, meglio se in una torrida giornata estiva, mollando infradito e passato prossimo sulla battigia con un ghigno beffardo.
Jeremy, Brohan, Mike e Brian (già negli Alvvays) hanno scritto uno degli album più empatici, coinvolgenti e solari di questo inizio 2021 - merito della sinergia cesellata in studio con Graham Walsh (Metz, Bully) - consegnando di fatto la pandemia all'oblio che merita.

ASCOLTA: "Undecided Voters", "Highlights Of 100", "Cooler Returns", "Omaha", "Waiting In Line".





(Foto: Warren Calbeck)


Davide Monteverdi.

lunedì 28 dicembre 2020

METZ: "Atlas Vending" (Sub Pop, Cd 2020).


C'è un che di catartico che scaturisce dall'ascolto di "Atlas Vendor".
Un pugno in faccia con il potere, non indifferente, di disinfettare le sinapsi e attivare simultaneamente i lobi cerebrali.
Il quarto album del power trio canadese - originario di Ottawa e oggi in pianta stabile a Toronto - conferma infatti il suono spigoloso, ossessivo, claustrofobico dei lavori precedenti, ma lascia anche intravedere - per la prima volta nel cursus honorum dei Metz - un tentativo strutturale di melodia e accessibilità delle composizioni. Detto così, per chi conosce i loro trascorsi sonici, può anche far sorridere la cosa.
La (presunta) patente di "maturità" che viene affibbiata ogniqualvolta gli artisti evolvono, smettendo di punto in bianco i panni di "giovani" caotici e impertinenti per diventare "adulti". Come se occorresse scusarsi pubblicamente mentre l'estetica musicale muta in maniera via via più ordinata, potabile e articolata.
I fan si considerino avvisati. 
Sono queste le dinamiche primordiali che attraversano le 10 canzoni del combo - vera e propria escalation concettuale tra nascita e morte, amore e alienazione, redenzione e psicosi da social media, tensioni sociali e autoconservazione - legate indissolubilmente in un perimetro predefinito, ora di ampio respiro.
Dove l'ordito degli strumenti si esalta in progressione per tutti i (quasi) 40 minuti di durata dell'album.
La chitarra lancinante di Alex Edkins diventa un tutt'uno con le liriche impastate di nichilismo e impellenza, la batteria di Hayden Menzies pulsa metronomica e marziale, il basso di Chris Slorach è tellurico e funzionale alla sezione ritmica con riempimenti e latenze improvvisi, conferendo ad "Atlas Vendor" quadratura ed essenzialità preziose a farne l'opera miliare dell'intera discografia. 
Un occhio al presente, uno  al passato.
I fraseggi angolari, gli orizzonti mercuriali, la furia postcore e le volute noise quelli restano - eccome se restano - ma l'equilibrata co-produzione di Ben Greenberg, e il lavorio in studio di Seth Manchester, ci restituiscono la fotografia di una gruppo mai così dinamico e intenso, consapevole dei propri mezzi e artisticamente rivolto a nuovi sviluppi.
E' il 9 Ottobre 2020 quando i Metz e la Sub Pop - a 8 anni precisi dal loro esordio discografico - buttano sul mercato la miglior colonna sonora possibile per l'annus horribilis che stiamo vivendo.
Coincidenza?
Crocevia?
Destino?
Certo è che i loro riferimenti musicali, seppur destrutturati e diluiti nel minutaggio, affiorano ripetutamente nella loro riconoscibilità sanguigna:  Jesus Lizard, Shellac, Sonic Youth, Dischord, Amphetamine Reptile e - come no - Nirvana.
Motivi di vanto che con tenacia si sostituiscono ai mormorii, una sfida decisa agli appunti velenosi che li hanno accompagnati per tutta, o quasi, la loro carriera.
"Atlas Vendor" è dunque una porta che si apre su orizzonti lontani, il sapore dell'orgoglio e dell'identità espressiva ormai stabilizzata in tutte le sue componenti, uno specchio esploso che rimanda l'immagine caleidoscopica di un trio coeso ma polimorfo.
L'apparenza di questo enorme lavoro non deve essere però fraintesa: non c'è nulla di consolatorio o che odori un minimo di pacificazione qua, non c'è alcuna velleità "pop" o lieto fine. 
Al di là del nuovo ordine "melodico", infatti, è la costante tensione psicologica a sublimare ascolto dopo ascolto.
Nonostante due capolavori come "No Ceiling" e "A Boat To Drown In" ambiscano a riportarci a galla: il primo un essenziale e fulmineo dejà vu, il secondo un'inaspettata cavalcata (quasi 8 minuti) dove "Daydream Nation" e lo Shoegaze copulano con reciproca soddisfazione sui titoli di coda.

ASCOLTA: "Pulse", "Hail Taxi", "Framed By The Comet's Tail".








Davide Monteverdi.


mercoledì 5 luglio 2017

Bad Bad Not Good live @ Magnolia x RollingStone.it




Nonostante le previsioni metereologiche avverse per assistere a un concerto all’aperto con il godimento necessario, mi faccio guidare dall’entusiasmo per i BadBadNotGood e mi dirigo a Milano tra lampi e nuvole nere e basse. Il meteo per fortuna non c’azzecca a ‘sto giro e mi presento sottopalco al Magnolia che sta spiovendo e il pit incomincia a rinfoltire le fila di chi, come me, è più uno spettatore curioso di questo esperimento sonoro che fan accalorato. Alle 22.30 in punto (quasi) i BadBadNotGood si presentano sul palco e partono a razzo improvvisando il tema musicale di James Bond, nel generale tifo da stadio mixato ad un certo stupore in merito all’età media del power trio di Toronto. Sembrano giovanissimi (si narra che siano del 1996), rilassatissimi ed incredibilmente competenti nel masticare 60 anni di storia e vibrazioni sottocutanee, risputando sulla folla una miscela di modern jazz, future beats, jazz rock e prog da far venire la pelle d’oca a un sordo. Certo, c’è Coltrane che sottende a quasi tutti i 75 minuti di live, ma il profumo è quello delle radio pirata inglesi, di certe trasmissioni su Jazz Fm pilotate da Eddie Piller, grazie soprattutto al toasting di Alexander Sowinski, batterista delle meraviglie oltrechè divertito e divertente Mc della serata.Insomma tutto gira benissimo e la band si concede intermezzi come Tequila dei Champs o lunghi intro psichedelici mentre snocciola quasi tutto IV, l’ultimo album licenziato nel 2016. Applausi più che meritati anche a Matthew Tavares (tastiere), Chester Hansen (basso, effetti) e a Leland Whitty (sassofoni, flauto), altro mattatore della serata con i suoi assoli ficcanti come rasoi e l’attitude di chi la sa lunga sulla vita di palco, nonostante le scarse primavere sulle spalle. Davvero una sorpresa al di là di ogni più rosea aspettativa questo gig, soprattutto la resa dal vivo dei BadBadNotGood risulta esponenzialmente superiore a tutti i loro album appiccicati insieme: molto più ironici, immediati, leggeri, istrionici e d’impatto grazie ell’empatia contagiosa che i kids canadesi riescono a sprigionare nell’aria. 

Welcome in this beautiful Thursday night”.


Davide Monteverdi