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martedì 20 giugno 2017

Chastity Belt: "I Used To Spend My Time Alone" (Hardly Art, 2017)



"I Used To Spend My Time Alone" è il terzo lavoro di studio per le Chastity Bell.
Ed è un album affascinante. Sotto ogni punto di vista.
Una sorta di vademecum per chi volesse assaporare la magia delle sonorità indie degli anni 90, al di là dei revival vuoti e semplicistici.
Già dall'incipit "Different Now" senti riverberi di Pavement, Wipers (originari di Portland, Oregon, dove si trovava lo studio di registrazione di questa session), Nirvana, Sonic Youth, e ne cito così pochi per via dello spazio, non per mancanza (loro) di ispirazione.
E sì, le cadenze un pò slacker e un pò shoegaze del combo ora in pianta stabile a Washington mi piacciono tantissimo.
Ci sono 10 canzoni più 3 bonus tracks in questo "I Used To Spend My Time Alone" ed ognuna raccoglie una piccola storia, a volte bella a volte no, che ti rapisce l'anima.
Di mattina come a notte fonda.
Perchè quella voce lì, con quelle chitarrine lì possono sembrare immobili, ma trapanano il cuore come nessun'altro nell'afa di Giugno quasi estate.
L'applauso globale va a "5AM", l'episodio che chiude formalmente la tracklist e che molla un paio di schiaffi energici a difese abbassate, un mix perfetto e commovente tra i primi Cure e le malie chitarristiche dell'indimenticabile Greg Sage.
Approvato!

Davide Monteverdi








giovedì 15 giugno 2017

CCM: "The Furious Era 1979 - 1987" (Area Pirata, 2017)




Quando una volta si parlava di Granducato Hardcore il primo nome che usciva dalle bocche di tutti era proprio il loro: CCM, per gli iniziati, o Cheetah Chrome Motherfuckers, per tutti gli altri.
Da Pisa con furore la band di Dome La Muerte (poi nei Not Moving) e soci seminò il panico in tutto lo stivale per poi riversare furia e italian pride nel resto d'Europa e pure negli Stati Uniti.
Quelli furono anni magici per l'Italia antipop: avevamo molto da dire e spesso lo urlavamo meglio di chi aveva la fortuna di non essere nato alla periferia dell'Impero.
Erano gli anni di Negazione, Indigesti, Raw Power, Wretched, delle autoproduzioni, e dei centri sociali che spingevano la cosiddetta scena.
Si correva come pazzi, si sputavano sangue e sudore, e l'attitudine era tutto.
I CCM però erano diversi.
Avevano una sorta di marcia in più, dove l'impellenza espressiva non era unicamente la mera sommatoria di testi rabbiosi, musica spaccaorecchie e stage diving, ma anche, e soprattutto, l'area di sfogo del notevole carisma di chi il palco lo sgretolava sera dopo sera.
Durarono più o meno dal 1979 al 1987, dando alle stampe una discografia tanto estesa quanto schizofrenica, ora preda di collezionismi altrettanto isterici.
Ci salva dal destino (economicamente) avverso la sempre pregevole Area Pirata che qua combina l'affaire dell'anno e che, con la supervisione degli stessi CCM, dà vita a questa raccoltona super esaustiva e rimasterizzata che ripercorre le tappe salienti della vita della band, corredata inoltre dai preziosi inserti contenenti testi e moltissime foto inedite.
Per il formato c'è solo l'imbarazzo della scelta tra il doppio cd che potremmo definire "deluxe", con un inedito, e l'edizione gatefold in doppio vinile nero 140 grammi.
Insomma un acquisto che nel 2017 si rivela imprescindibile per chi ama l'hardcore in tutte le sue declinazioni, al di là di qualsiasi appartenenza anagrafica.
Radici e orgoglio!

Davide Monteverdi.









martedì 18 aprile 2017

PORTER RAY: "WATERCOLOR" (Sub Pop 2017)


Qualsiasi cosa, anche la meno conosciuta, merita rispetto ed almeno un ascolto quando esce su Sub Pop.
La storia dell'Indie Rock e della Musica Alternative a stelle e strisce degli ultimi 3 decenni, più o meno, parte da Seattle. 
Che è guarda caso la città natale di Porter Ray, rapper di nuova generazione su cui la label ha deciso di investire per questo debutto sulla lunga distanza.
Va detto fin da ora, e per chiarezza, che "Watercolor" non è un album che sgorga dal solito background MTV meets Ghetto, ma scaturisce dal sangue sofferente di chi nella vita ha perso quasi tutto.
Il padre per una malattia degenerativa, il fratello in una sparatoria, la compagna in un incidente stradale.
Al netto della nascita del figlio Aron, sfighe così ti stroncherebbero in un secondo netto, gettandoti nell'abisso dove non servono porte da sbarrare con rabbia.
Porter però reagisce con fermezza, trasforma il veleno in medicina, butta la sua storia in rime veloci e pressanti, sottolineate da beats profondi e notturmi quanto ammalianti ascolto dopo ascolto.
Questo per confermare che ognuno dei 14 episodi è una piccola raccolta di diapo nitide ed in perenne scivolamento laterale.
Un disco dove la catarsi è il principio iniziale e l'architettura sonica diventa buona per notti d'inverno soprattutto interiori.
Bravo Porter Ray, davvero!
Perchè l'operazione in toto sembra ben riuscita, così come le numerose collabo che butta nel piatto ed il mixaggio pregiato di Erik Blood, fine ed astuto ricamatore di atmosfere metropolitane.


Davide Monteverdi