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giovedì 20 gennaio 2022

Colleen Green: "Cool" (Hardly Art, Cd 2021).

"Cool" è probabilmente l'album che ho più ascoltato "on repeat" nel 2021. O almeno, quello a cui sono ritornato più spesso nel girovagare tra le innumerevoli uscite senza peso durante i mesi nefasti, e di sicuro si piazzerebbe ai primi posti della mia Top Ten annuale se mai fossi interessato a compilarne una di questi tempi. Questo per dire che al di là delle note stampa e dei lanci "promozionali" - meritevoli, certo, ma passibili di ovvia faziosità - un disco vince per la sua capacità di colpirti dentro mentre sei fuori fuoco. Nel mio caso specifico è stato un mix di fattori a investirmi in pieno e a farmi innamorare praticamente all'istante: le melodie cristalline sparse ovunque, le sonorità che strizzano l'occhio al miglior Indie Rock degli anni '90, le movenze sinuose delle dieci canzoni (l'artista stessa ammette che "dieci è il numero perfetto" in una recente intervista su Rolling Stone) che costituiscono l'ossatura di "Cool", con quell'alternanza (proficua) tra riflessione e urgenza che ha il ritmo della vita. Un lavoro che scorre fluido, brillante, arioso ascolto dopo ascolto insomma proprio "giusto" da qualsiasi punto di vista lo si voglia prendere e sezionare. Frutto dei sei anni che la musicista di Lowell si è presa per evolvere come essere umano e artista dopo la pubblicazione di "I Want To Grow Up" nel 2015, il terzo album (sempre marchiato Hardly Art) che ha sancito il suo maggior successo commerciale nonchè l'inizio del percorso interiore che l'ha traghettata a quel "qui e ora" che "Cool" tratteggia un minuto dopo l'altro. In mezzo c'è stato qualche singolo, l'attività live poi sospesa causa Pandemia, le session in studio di registrazione con Gordon Raphael e Aqua, e in ultimo il ritorno a casa in Massachusetts l'autunno scorso - dopo un decennio vissuto a Los Angeles, città che non ha mai amato fino in fondo - con un normalissimo lavoro part time al seguito. Ecco "Cool" è la sintesi perfetta di questa progressione nel suo intricato divenire, qua narrata con piglio ironico e "maturo" da una Colleen Green in evidente stato di grazia. Tutta magia che ti si appiccica addosso, proprio come "Natural Chorus" che è una sorta di pigiamino ritmico e felpato che incrocia motorik e sussulti chitarristici. Consigliato!

Ascolta: "Posi Vibes", "You Don't Exist", "How Much Should You Love A Husband?", "Pressure To Cum".





Davide Monteverdi.

martedì 24 settembre 2019

Chastity Belt: "Chastity Belt" (Hardly Art, 2019)


Questo è il giorno ideale, almeno dalla mia finestra, per ascoltare il nuovo album delle Chastity Belt: cielo plumbeo, pioggia fine e incessante, temperatura in calo drastico, e quell'aria indecisa che ogni lunedì assume quando l'estate scivola nell'autunno senza un minimo preavviso.
Eppure in questo omonimo, quarto, album c'è una scintilla a bilanciare le composizioni intimiste e venate di nostalgia postadolescenziale. Una sorta di bagliore al neon che allo stesso tempo ipnotizza e illumina fiocamente una strada priva di pericoli alla vista, rassicurante e stimolante nella sua progressione, proprio come le 10 tracce composte, suonate, e cantate dal quartetto (adottivo) di Seattle. 
Julia Shapiro è bravissima a ricreare l'empatia da ostello con le altre componenti della band, a delineare uno spazio aperto e libero dove le confidenze anche scomode scaturiscono senza forzature, dove le voci incrociano gli strumenti senza mai una sbavatura.
"Chastity Belt" è infatti costellato di ormoni e sentimenti, consapevolezza e buoni auspici, s'intuisce perfettamente come il passato sia un necessario bagaglio esperienziale che non tornerà più, nel bene e nel male.
E a testimonianza di questa (sofferta ma imprescindibile) evoluzione esistenziale, anche la forma canzone si spiega con raffinatezza e maturità inaspettate: ecco allora i violini comparire per la prima volta facendo il paio con i synth, poi una maggiore fluidità tra liriche e musiche, e infine la sinergia matematica tra le ragazze quando si smazzano le diverse parti vocali. A dimostrazione di un feeling ritrovato al volo dopo un breve stand by, e conseguenti progetti individuali, nel recente passato.
Due anni di attesa dal precedente "I Used To Spend So Much Time Alone", evidentemente spesi molto bene, ed eccoci qua con una nuova raccolta di canzoni struggenti eppure a loro modo sbarazzine.
Con le chitarre di Julia Shapiro e Lydia Lund a sprizzare quintali di melodie irresistibili e flasback continui e indecisi tra neopsichedelia, new wave, e shoegaze. Con il basso imperioso di Annie Truscott e la batteria metronomica di Gretchen Grimm a puntellare l'intera tracklist, secondo dopo secondo.
"Chastity Belt" è stata davvero una sorpresa inaspettata e gentile: generosa nel dispensare momenti chiaroscurali quanto nel lenire il fallout di certi giorni bigi, dominati dai massimi sistemi e dalle loro conseguenze.
On repeat, dolcezza, on repeat!



Ascolta: "Effort", "Apart", "Split"


Hardly Art


Davide Monteverdi




martedì 9 luglio 2019

VERSING: "10000" (Hardly Art, 2019)


"10000" è il nuovo, secondo, lavoro di studio per il quartetto di Seattle guidato dal carismatico cantante e chitarrista Daniel Salas, che con le sue 13 tracce ci conduce per mano in un passato recente e glorioso. Quegli anni 90 che hanno marchiato a fuoco almeno un paio di generazioni turbolente di teenagers, in un saliscendi schizofrenico tra melodie e rumore, ordine e caos, autodistruzione e catarsi.
Tutti i riferimenti sonori di questo album prendono ossigeno, di fatto, dall'epopea alternative rock di quel decennio, rimodulati però secondo un linguaggio corrente (seppur rispettoso delle tradizioni) declinabile con la sensibilità delle nuove generazioni di ascoltatori.
Le tracce di "10000" scorrono bene dall'inizio alla fine, abbandonando nelle sinapsi schegge elettriche di Pavement, Dinosaur Jr, Sonic Youth e tutta quella roba lì college rock a stelle e strisce, con in più una strizzatina d'occhio alla coeva scena shoegaze psichedelica inglese.
Insomma nulla di nuovo sotto il sole dell'indie sound (tantomeno dalla rigogliosa Seattle), ma "10000" è un album che si fa ascoltare con rinnovata curiosità: di sicuro non impatterà sul corso della storia, ma può ambire a guadagnarsi lo status di gioiellino incompreso all'interno della scena.


Ascolta: "Entryism", "Tethered", "By Design", "In Mind", "Sated".



Davide Monteverdi.


martedì 10 luglio 2018

LA LUZ: "Floating Features" (Hardly Art, 2018)


Terzo album per il quartetto di Seattle californiano d'adozione (le ragazze risiedono ora in pianta stabile a Los Angeles) sempre via Hardly Art, sottoetichetta nell'orbita Sub Pop, e prodotto con grande eleganza da Dan Auerbach dei Black Keys.
"Floating Features" esce nel Maggio di quest'anno centrando il primo obbiettivo, ovvero classificarsi come lavoro dal taglio prettamente estivo e delicato come un pugno di sabbia cullato dal vento.
11 tracce che non tradiscono le origini indie del combo, guidato dai vocalismi sensuali di Shana Cleveland (voce e chitarra) e da tutto quell'immaginario che pesca a piene mani nel repertorio di band femminili (e non) degli anni '60/'70, tra psichedelia desertica e folk, suggestioni surf e volute dreampop/shoegaze proprio nell'anno del loro grande ritorno.
Insomma "Floating Features" è musica luminosa, soffice, trasognata, cinematica e perfetta per le gite fuoriporta della domenica o per i falò in spiaggia dopo il mare ristoratore.
Un ascolto che suggerisce l'heavy rotation immediata, cavalcando l'onda lisergica già dai primi minuti grazie al Farfisa di Alice Sandahl e al poderoso cesello ritmico della batteria di Marian Li Pino e del basso pulsante di Lena Simon.
Uscito a tre anni di distanza dal precedente "Weirdo Shrine", "Floating Features" si fa amare come un gattino trovato per strada, in maniera del tutto innocente e appassionata. Soprattutto grazie al generoso balzo in avanti sia a livello compositivo che strumentale confermandosi così, senza fatica, la raccolta di canzoni più completa delle La Luz dall'esordio a oggi.
"Loose Teeth", "California Finally", "The Creature", "Greed Machine" e "Don't Leave Me On The Earth" piacciono subito e sarebbero le sicure hit agostane in un mondo migliore e sghembo come pochi.
Ora basta pensare, è tempo di chinotto, tamburelli e peyote.







Davide Monteverdi.




martedì 20 giugno 2017

Chastity Belt: "I Used To Spend My Time Alone" (Hardly Art, 2017)



"I Used To Spend My Time Alone" è il terzo lavoro di studio per le Chastity Bell.
Ed è un album affascinante. Sotto ogni punto di vista.
Una sorta di vademecum per chi volesse assaporare la magia delle sonorità indie degli anni 90, al di là dei revival vuoti e semplicistici.
Già dall'incipit "Different Now" senti riverberi di Pavement, Wipers (originari di Portland, Oregon, dove si trovava lo studio di registrazione di questa session), Nirvana, Sonic Youth, e ne cito così pochi per via dello spazio, non per mancanza (loro) di ispirazione.
E sì, le cadenze un pò slacker e un pò shoegaze del combo ora in pianta stabile a Washington mi piacciono tantissimo.
Ci sono 10 canzoni più 3 bonus tracks in questo "I Used To Spend My Time Alone" ed ognuna raccoglie una piccola storia, a volte bella a volte no, che ti rapisce l'anima.
Di mattina come a notte fonda.
Perchè quella voce lì, con quelle chitarrine lì possono sembrare immobili, ma trapanano il cuore come nessun'altro nell'afa di Giugno quasi estate.
L'applauso globale va a "5AM", l'episodio che chiude formalmente la tracklist e che molla un paio di schiaffi energici a difese abbassate, un mix perfetto e commovente tra i primi Cure e le malie chitarristiche dell'indimenticabile Greg Sage.
Approvato!

Davide Monteverdi